Stezzano, via Isonzo, campi del balù. Il lasciapassare è il saluto del magazziniere Andrea Ricchiuti, che offre subito il kalumet dell’amicizia più consono a chi vive l’ambiente cucendoselo addosso a mo’ di seconda pelle: la sfera di cuoio, per improvvisare due fraseggi davanti alla porta, disoccupata nell’incipit di un weekend primaverile di fine inverno. Sole, vento tagliente, parole in libertà che sgorgano dalle corde dell’anima, obiettivo con zoom sui protagonisti di una saga semplice quanto ricca di contenuti, nomi e volti. Scenografia perfetta per un’intervista doppia in cui s’intersecano le storie, a saperle leggere in filigrana, di un’intera comunità. Si chiamano Angelo e Davide,
il fisico e l’impianto dell’atleta glieli scorgi lontano un miglio: «Anche se io ho dovuto abbandonare a ventott’anni dopo mediale, crociato e menisco», esordisce il pupo. Insieme alla passione per l’agonismo nei suoi valori più puri, nata calpestando l’erba – «In tempi non lontani, però, il campo delle giovanili, al centro sportivo, era in ghiaia» – e continuandone a respirare l’aroma.
Padre e figlio, con un amore condiviso: la Juventus. Non è questo a renderli gli special ones del caso, perché il flirt con la Vecchia Signora li accomuna ad altri tredici milioni di italiani. È tutta una questione di famiglia. Il primo ha svezzato gli eredi, compreso Alessandro (’82), accompagnandone i vagiti da calciatori all’ombra della parrocchia, per poi incrociare i tacchetti con Facchetti, Bertini e Domenghini al famoso e rimpianto Torneo del Sabato, negli amatori della Vuemme, a braccetto coll’attuale presidente della Stezzanese Gianpaolo D’Adda, anche lui della classe di ferro 1951: «Qualche stagione la mettemmo in bacheca, con noi c’era anche Pierino Daminelli. Giacinto era l’idolo di mio moglie, un monumento, con lui era una sfida anche fra interista e juventino fino al midollo – fa l’Angelo, sorridendo al ricordo del campione che non c’è più -. Il Domingo invece mi chiese cortesemente di non costringerlo a correre troppo, chiamandomi per il numero di maglia: il due. Non ero proprio un titolarissimo, alle famose finali nazionali di Ostia non ci potei andare per motivi di lavoro. Da calciatore il massimo che riuscii a fare fu una seconda categoria nel Curnasco, dopo la trafila all’oratorio. 1975/1976».
L’altro, trentacinque primavere di meno, si presenta in maglia Fiorente Colognola. Quella nerazzurra, quella della ricostruzione dopo il ritiro della famiglia Pezzoni e la ripartenza obbligata dalla terza categoria:
«Era il 2009, ero ancora abile e arruolato nell’Oratorio quando il direttore sportivo Maurizio Casali mi chiese di aggregarmi ai vari Spinella, Martinoli, Cimmino e Rota. Fu lì che conobbi Giulio Cagliani, l’uomo più importante della mia vita da sportivo. Dopo mio padre, ovviamente».
Insomma, già da queste righe si capisce in quale mare remano i tipi, dediti a veleggiare in poppa in compagnia di skipper di grido, personaggi di casa nostra che profumano di storia e attaccamento allo svago più popolare e amato. E ora, nel cuore del secondo paragrafo, giù la maschera e fuori il cognome. Cortinovis, in questo santuario del fùbal bergamasco con la prima squadra al vertice della Promozione regionale C, è all’opposto del proverbiale ago nel pagliaio. Condivide da sempre il primato dei casati, all’intersezione dell’alta pianura con gli assi viari verso la Bassa, coi Maffioletti e i Ferrari.
E quanti legami, a filo doppio e talvolta quadruplo, con l’universo del pallone, una delle ragioni d’essere di chi sceglie lo sport come filosofia di vita e carriera parallela al lavoro che offre prebende fisse, nel paesone che va verso le tredicimila anime e fu patria dei Conti Moroni. Abile e arruolato, sponda Oratorio, attualmente c’è Federico, il lungagnone che stanga i portieri da distanze siderali: «Siamo solo omonimi, ma coetanei e cresciuti insieme. Vincemmo il campionato Pulcini nel 1996: Federico, Robert Ronchetti e io, arrivati quarti al Torneo delle Cento Squadre nel 1997, finimmo nella Voluntas Brescia, che è un po’ il vivaio del Brescia Calcio – ricorda Davide, 1986, dal sangue rossoblù ma col bianconero nelle pupille -. Poi sono tornato in paese, accorgendomi comunque di non essere tagliato per la parabola professionale a certi livelli, stavolta alla Stezzanese: tre anni nel settore giovanile, uno sotto Dante Meris e gli altri con Nucci Torreano, il passaggio ad Azzano e il discorso ripreso con l’Oratorio Stezzano».
(il primo gol…)
Altre annate da primato, fra Esordienti e Giovanissimi, in via Isonzo. Papà Angelo il salone dei trofei preferiva imbellettarlo da mister. E pensa un po’ chi ha tirato fuori dalla culla: «Gli ’88, gli ’89 e i ’90 sono quelli che mi hanno dato più soddisfazioni, scuola calcio a parte. Tra Pulcini ed Esordienti, un campionato vinto nel 2001. Gente come Nicola Zana, la bandiera della Stezzanese, Sergio D’Adda, il figlio del Paolo, Stefano Testa, che gioca ancora all’Oratorio». Più una testa matta di grandissima classe pura: «Mattia Piacentini, piede sinistro magistrale e bel caratterino. Uno che il numero 10 ce l’ha stampato dentro, non solo dietro. C’era una regola: chi non si fosse presentato a un allenamento sarebbe partito dalla panchina. Ce lo misi, ma al momento dei cambi si rifiutò di entrare! Era una partita in casa dell’Antoniana. Piacentini poi fu nella squadra di Di Costanzo che conquistò la Coppa Italia di Promozione e salì in Eccellenza nel 2011». Basta il lembo di una pagina di un capitolo qualsiasi dei loro racconti, ed ecco che di nuovo il cammino di Angelo e Davide calza le stesse scarpe dei primattori che illuminano tuttora la scena del calcio a chilometro zero. Forse la riproduzione in scala di un mondo dei big percepito ormai come lontano dal sentire comune, perché quello sotto casa è più vero e profuma sempre di bucato fresco come le mute stese ad asciugare nell’antistadio. Parola a Davide: «Vorrei tanto andarmi a vedere la Juve, ma tra il mio lavoro a Brescia e l’impegno domenicale nel calcio non mi resta tempo. Da due stagioni faccio l’osservatore per lo Scanzorosciate, dove ho seguito il diesse Matteo Vavassori dopo gli anni di Ranica. Dall’Eccellenza alla D con l’obiettivo di restarci. Il mio compito è di seguire le partite dell’avversario della domenica successiva e presentare allo staff tecnico una relazione dettagliata su giocatori, tattica e schemi». E qui si torna, immancabilmente, all’incrocio coi personaggioni in pompa magna del movimento nostrano: «Cagliani fra tutti è quello che mi ha dato in assoluto di più. Mi fece cambiare ruolo, da esterno alto a basso, un po’ come Lippi col mio idolo Zambrotta. Mi scelse come vice allenatore, a Ranica, quando ancora calcavo i terreni di gioco. Con pieni poteri, compreso quello di strigliare la squadra nello spogliatoio in sua assenza. Gestire un gruppo è esaltante: a Ranica, doppio salto di categoria fino alla Promozione e alla fusione con la Colognese. Decisi di farmi da parte e non volli seguire Giulio nemmeno nella sua avventura a Palazzolo: gli voglio bene, ma c’è rimasto male».
Angelo, nei suoi decenni da aficionado delle Zebre, ha incontrato anche i grossi calibri. Da tifoso, tifosissimo: «Siamo quattro fratelli, tutti juventini, cresciuti a pane, pallone e Gazzetta Illustrata. Mica c’era la tv a coprire ogni respiro come adesso. Uno zio di Torino ospitandoci ci consentì di veder sfilare i vari Boniperti, Charles e Sivori. Negli anni ottanta ero fisso allo stadio e riuscii a stringere la mano all’Avvocato Agnelli: impresa titanica, era in mezzo a non so quante guardie del corpo». Affiorano anche memorie che fanno male. Inevitabili. L’Heysel, trentadue giri di corsa fa: «Dopo quella serata, per la quale m’ero preso due giorni di ferie, rimasi a casa sotto choc una settimana intera. Già dal pomeriggio si presagiva che qualcosa di sinistro era nell’aria: i tifosi del Liverpool erano così ubriachi che non ci riuscì nemmeno lo scambio di sciarpe, si ripresero le loro. C’era chi spegneva mozziconi sui cavalli della polizia. Ero nel settore opposto alla famigerata Curva Zeta e intravvidi la calca, il parapetto non resse. Alla fine scappammo dal ponte della ferrovia, c’era gente con i coltelli pronta a farci la pelle. Ritrovai un mio amico di Verdello solo due giorni più tardi. In questa violenza non mi riconosco, non mi sono più riconosciuto: ora faccio il tifoso davanti alla tv, l’altro mio figlio, Alessandro, ha Premium e ci vediamo lì la Champions». Ma la passione è qualcosa di famiglia. E Stezzano è una grande famiglia con le sue icone da rispettare: «Agli Amatori c’era un’istituzione come Gianni Colombo in panchina, ci faceva sgobbare tenendoci sul pezzo come se fossimo professionisti. Tra i compagni c’era Alessandro Gibellini, anche lui ex allenatore della Stezzanese». E all’infuori di quel giocattolo magico, che rotola oltre una riga come il destino degli uomini, che altro c’è? «Alessandro fece anche judo, io da quando abito da solo mi sono messo a dipingere – è la chiosa di Davide -. Se e quando avrò dei figli, li lascerò liberi di scegliere. Come ha fatto mio padre con me».
testo: Simone Fornoni
foto: Luca Limoli
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